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mercoledì 8 novembre 2017

Il contatto con il Divino e la Sacra Scrittura

Parlando di grazia, come ho fatto nel post precedente, si è determinati a parlare di un vero e proprio contatto con il Divino. La potenza guaritrice (dynamis) che esce da Cristo e sana l'emorroissa non opera una semplice terapia ma stabilisce un contatto immediato, per quanto fugace, tra la realtà umana e quella divina.

Nonostante non possa essere espresso dalla logica, tale contatto è chiaramente avvertito dalla natura umana come qualcosa di totalmente altro e di assolutamente inesprimibile. Il fenomeno avviene in un determinato momento, al punto che la persona guarita si ricorda l'ora e la data dell'avvenimento, ma, scaturendo dalla sfera divina, proviene contemporaneamente da una dimensione atemporale. Il contatto dell'uomo con il Divino testimoniato dai Vangeli si prolunga nella Chiesa ma solo sotto determinate condizioni che già il Vangelo mette in bocca a Cristo: “Credi nel Figlio dell'uomo?” (Gv 9, 35); “Non ti ho detto che se credi, vedrai la gloria di Dio?” (Gv 11, 40). Gli Atti degli Apostoli ribadiscono lo stesso concetto: “Filippo disse: 'Se tu credi con tutto il cuore, è possibile'. L'eunuco rispose: 'Io credo che Gesù Cristo è il Figlio di Dio'” (At 8, 37). La fede incrollabile in Cristo rende possibile il contatto tra la dimensione eterna e quella temporale, la realtà increata (o divina) e quella creata (o creaturale).

Il fatto è ampiamente evidenziato nella Rivelazione perché lo si possa mettere in dubbio e lo si può testificare in particolari momenti della vita di certi santi.
La fede cristiana non è un bagaglio di concetti intellettuali da conservare e tramandare. Per quanto la si possa esprimere anche in termini discorsivi, la sua vera natura è spirituale: la fede è un atteggiamento dello spirito umano che si appoggia su un “sentire” interiore che viene attivato dalla grazia. In effetti un tempo si diceva popolarmente: “Credere è una grazia di Dio”.

Infatti, ad un ateo potremo parlare fino a domattina dell'esistenza di Dio, magari facendo leva sulle cosiddette prove filosofiche di Tommaso d'Aquino, ma non crederà. Quello di cui l'ateo, e in fondo ognuno di noi, ha bisogno non sono i remata (le parole come puri suoni) ma i logia (le parole che danno vita). Cristo è il Logos per eccellenza: quello che dice immediatamente compie, che sia la maledizione del fico sterile, che sia la resurrezione di Lazzaro.

La grazia, dunque, effettua un contatto dell'umano con il Divino, essendo la grazia medesima “sangue”, se così si può dire, di Dio stesso.

È attraverso questo contatto che gli asceti erano resi sapienti, pur senza aver fatto particolari studi. È per cercare questo contatto che essi vivevano con grandi rinunce: “Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo, che un uomo, dopo averlo trovato, nasconde; e, per la gioia che ne ha, va e vende tutto quello che ha, e compra quel campo” (Mt 13, 44).

È attraverso questo contatto che chi ne usufruisce, magari anche un solo istante, comprende il valore della Scrittura e della Tradizione in un modo che non è dato a tutti perché consiste nel vedere le cose “all'interno” di loro stesse.

Fatta questa premessa, si può ora ben capire perché nei primi secoli cristiani era auspicabile l'esperienza monastica, soprattutto per chi avrebbe ricoperto una carica episcopale. Il vescovo, infatti, non deve giudicare con la mentalità del sindaco, in modo legale, esteriore, mondano (come oramai avviene). Il vescovo, come padre della diocesi, deve giudicare con l'occhio di Dio e questo è possibile solo in un'atmosfera autenticamente monastica. Se ciò non avviene, la Tradizione immediatamente si rinsecchisce e diviene un mero elenco di cose da fare “perché si è sempre fatto così” fino al giorno in cui qualcuno ha il coraggio di buttare tutto per aria (come oramai avviene nel Cattolicesimo e come è avvenuto nella Riforma protestante).

A questo formalismo che porta all'iconoclastia e alla desacralizzazione si è poi aggiunta la mentalità illuministica che ha letteralmente imbevuto tutto il nostro Cristianesimo occidentale.

Ad esempio ciò lo vediamo in un'intervista del generale dei gesuiti Arturo Sosa il quale dichiarò che le parole di Gesù non sono state tramandate da un nastro, o disco che sia, per cui noi non sappiamo esattamente ciò che Egli abbia detto.

L'affermazione ha fatto giustamente rizzare i capelli a molti ma chi ha protestato si è limitato a contrapporre a questa dichiarazione, che finisce per relativizzare il valore delle affermazioni di Cristo, l'idea che l'autorità dei Vangeli è sufficiente a fondare se stessa e quindi non dev'essere scalfita: “è così perché è così”.

Da quando la dichiarazione sosiana è stata fatta, lo scorso febbraio, non ho trovato una riflessione, che sia una!, che mi spiegasse le cose in modo alternativo, un po' più profondo. E anche questo, ovviamente, indica come la fede cristiana, almeno in Occidente, si sia fin troppo intellettualizzata.

Detto diversamente: si è alterato quel movimento circolare che i Padri stessi della Chiesa ci mostrano e gli asceti ci confermano. Il movimento circolare è questo: si parte dalla Scrittura, si crede in Cristo, ci si converte a lui, si è toccati dalla grazia, si legge con la grazia la Scrittura nella Chiesa e, nell'esperienza mistica, si ha la prova provata della sua validità. È ovvio che tutto questo non è istantaneo al punto che può richiedere molto tempo, ma è l'unico modo autentico di approcciarsi alla Scrittura che io conosca.



Oggi questo movimento circolare si è da tempo alterato: messa da parte la Chiesa e ritenuto un mito la grazia e la vita spirituale, si legge la Scrittura con il solo intelletto, un intelletto razionale che i Padri definirebbero “pieno di passioni” e quindi portato a cercare, nella lettura, conferma anche alle proprie debolezze. Il movimento circolare tradizionale è dunque stato sostituito con un altro movimento circolare: si parte da se stessi, si arriva alla Scrittura e, attraverso la ragione logica individuale si trae un significato razionale per poi tornare a se stessi, magari con diversi dubbi in più, come mi sembra di capire dalla risposta del gesuita.

Le parole di Gesù in quanto semplice scritto non significano nulla se non diventano vita della Chiesa, una vita in contatto reale (non ideale!) con l'Eternità. Quando ciò non avviene, sia perché richiederebbe un ascetismo ritenuto repellente, sia perché non si è mai creduto davvero, il vangelo diviene campo di esercizio per le opinioni più arbitrarie, tra cui quelle di padre Sosa.

Si comprende bene come qui oramai non possa più esservi spazio per alcun contatto con il Divino poiché non si può imparare veramente nulla di utile, visto che si pongono ragionamenti simili o peggiori di Peppone contro don Camillo.

Il discorso della grazia e del contatto con il Divino non può trovare assolutamente luogo in certi ambienti. Chi vuole continuare a credere si metta l'anima in pace, lasci pure che “i morti seppelliscano i loro morti” (Mt 8, 22), e viva nella Tradizione.

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